Sofia Martelli, archeologa italiana, trova un antico diario con sette frasi attribuite a Gesù, che parlano di amore, pace e unità tra fedi. Scelta come Messaggero, affronta un viaggio pericoloso in un mondo diviso, tra attacchi di nemici estremisti e visioni spirituali. Con un team di alleati diversi—un’ex spia, una scienziata, un ironico collega e guerrieri devoti—Sofia combatte per portare il messaggio del diario a un grande evento a Roma, dove le fedi del mondo si incontrano. Una storia di coraggio e speranza che sfida il caos globale.
Capitolo 1
La Voce
di Damietta
Damietta, Egitto, estate 1219
Il porto di Damietta era un crogiolo di caos e disperazione,
un luogo dove il sole dell’Egitto sembrava voler incenerire ogni speranza. Il
Nilo, pigro e torbido, rifletteva un cielo di un azzurro accecante, come un
mosaico di lapislazzuli incrinato da schiuma sporca e relitti di legno
annerito. Le navi crociate, con le loro croci rosse sbiadite su vele lacere,
dondolavano stancamente, mentre i marinai scaricavano casse di viveri rancidi e
armi arruginite. I soldati, con le armature ammaccate e gli occhi incavati
dalla fame, arrancavano sulla banchina, i piedi che affondavano nel fango caldo
misto a sale. Il clangore delle spade contro gli scudi risuonava come un
lamento metallico, intrecciandosi alle urla dei feriti, al crepitio dei falò
che divoravano i cadaveri per scongiurare la pestilenza, e al tanfo opprimente
di pesce marcio, sudore e sangue rappreso. Il fumo acre si alzava in volute
dense, portando con sé l’odore di carne bruciata e legno carbonizzato,
un’offerta macabra al cielo senza nuvole.
In mezzo a questo tumulto, il canto del muezzin si levava
dalle moschee di Damietta, un richiamo che tagliava l’aria come una lama di
seta, vibrante e solenne, un filo di spiritualità che si intrecciava al tessuto
della guerra. Le mura della città, sotto assedio da mesi, si ergevano come
giganti feriti, macchiate di fuliggine e butterate dai colpi delle catapulte
crociate. Le torri, con le loro merlature spezzate, sembravano osservare il
porto con occhi ciechi, custodi di una città che resisteva con ostinazione.
Francesco d’Assisi, 37 anni, avanzava scalzo tra le linee di
guerra, il saio marrone lacero e incrostato di polvere che strisciava sui
ciottoli roventi del porto. I piedi, callosi e screpolati, sanguinavano a ogni
passo, lasciando piccole macchie rosse che si mescolavano alla terra arsa. I
capelli castani, tagliati a tonsura, erano appiccicati alla testa dal sudore e
dalla sabbia, mentre gli occhi, di un castano caldo e profondo, brillavano di
una luce che sembrava vedere oltre il velo della morte. Un crocifisso
d’argento, semplice ma pesante, pendeva al suo collo, il metallo caldo che
bruciava contro la pelle come un sigillo divino, riflettendo il sole in lampi
abbaglianti. Un rosario di corda, annodato con cura durante notti di preghiera,
gli cingeva la vita, oscillando al ritmo lento dei suoi passi. L’odore di
terra, sudore e salsedine lo avvolgeva, ma un profumo inspiegabile di rose
selvatiche, dolce e penetrante, sembrava seguirlo, intrecciandosi a una nota
calda di mostaccioli appena sfornati, un mistero che contrastava con la
desolazione del porto.
Francesco si fermò un istante, il volto alzato verso il
cielo, il crocifisso che scintillava. Sentì il peso del viaggio che lo aveva
portato lì: mesi di peregrinazioni da Assisi, attraverso strade polverose e
mari in tempesta, per rispondere a un richiamo che bruciava nel suo cuore.
“Illuminato,” disse, la voce roca ma vibrante come un salmo cantato al vento,
“il Signore mi ha mandato a portare la Sua voce, non la mia. Il Califfo è un
figlio di Dio, come ogni uomo. Devo parlargli.” Le parole erano un soffio, ma
portavano il peso di una missione che trascendeva la guerra.
Frate Illuminato, 32 anni, camminava al suo fianco, la figura
robusta avvolta in un saio consunto che odorava di fumo e resina di pino,
residuo dei falò accesi lungo il viaggio. La barba nera, folta e ispida,
incorniciava un volto segnato dalla stanchezza, ma i suoi occhi gentili
tradivano una devozione incrollabile. Una bisaccia di tela sdrucita, contenente
un tozzo di pane secco e una borraccia d’acqua ormai tiepida, gli pesava sulla
spalla, il cuoio che scricchiolava a ogni passo. Il rosario di corda, consunto
dal tempo, tremava tra le sue mani callose, le dita che si muovevano lente sui
nodi, come a cercare conforto nella preghiera. “Fratello Francesco,” disse, la
voce profonda ma incrinata da un’ombra di paura, “questo è un luogo di spade,
non di pace. Perché rischiare la vita per un Califfo che potrebbe ordinare la
nostra morte?” Il sudore gli colava lungo la fronte, la polvere che si
incollava alla pelle come un velo grigio.
Francesco si voltò, un sorriso che era insieme luce e veritè
gli illuminava il volto. Posò una mano sulla spalla di Illuminato, un gesto
caldo e fermo, come il calore di un focolare in una notte d’inverno.
“Illuminato, se Yeshua ha perdonato i Suoi carnefici, come possiamo temere un
fratello? Il Signore ci guida, anche attraverso il fuoco.” Il crocifisso
d’argento brillò sotto il sole in un lampo che fece sobbalzare Illuminato,
mentre il profumo di rose selvatiche si intensificava, avvolgendoli come un
mantello invisibile.
Il viaggio da Assisi era stato un’odissea di fede, un
pellegrinaggio che aveva messo alla prova corpo e spirito. Avevano attraversato
l’Italia a piedi, sotto piogge torrenziali e soli cocenti, dormendo in grotte e
sotto gli ulivi, l’odore di erba bagnata e terra che li accompagnava. A
Venezia, avevano barattato un passaggio su una nave mercantile, un vascello
malandato che puzzava di catrame, pesce essiccato e salsedine. Le onde del
Mediterraneo avevano schiaffeggiato lo scafo come un tamburo di guerra, il vento
che ululava tra le sartie come un lamento. A Damietta, avevano camminato tra le
linee nemiche, il suono dei corni crociati e dei tamburi saraceni che
echeggiava nelle orecchie, l’odore di ferro e morte che pizzicava le narici.
Francesco, disarmato, con il saio che sventolava come una bandiera di pace,
aveva attirato gli sguardi dei soldati cristiani, che lo deridevano come un
folle, e dei musulmani, che lo fissavano con sospetto misto a curiosità.
Nessuno, però, aveva osato fermarlo, come se un’ombra invisibile lo
proteggesse, il crocifisso d’argento che sembrava pulsare di luce propria sotto
il sole implacabile.
Mentre avanzavano verso il campo del Sultano, Francesco si
fermò accanto a un falò abbandonato, le fiamme ormai ridotte a braci che
sputavano scintille. Raccolse un rametto di salvia selvatica, schiacciandolo
tra le dita. L’odore pungente si mescolò al profumo di rose, e lui chiuse gli
occhi, mormorando una preghiera: “Signore, fa’ di me uno strumento della Tua
pace.” Illuminato, osservandolo, sentì un nodo stringergli il petto.
“Fratello,” disse piano, “sei sicuro che il Califfo ci ascolterà? Questa guerra
ha indurito i cuori.” Francesco aprì gli occhi, il volto sereno. “Non cerco di
cambiare il suo cuore, Illuminato. Cerco solo di parlargli, come un fratello a
un fratello.”
Il campo del Sultano al-Malik al-Kamil, a poche miglia da
Damietta, era un’oasi di ordine in mezzo al caos della guerra. Tende bianche e
rosse si ergevano come fiori nel deserto, ornate di motivi geometrici che scintillavano
sotto il sole feroce, come costellazioni tessute nella seta. L’aria era satura
di profumi: incenso che bruciava in bracieri di ottone, cardamomo tostato, e il
sentore ricco di carne di capra arrostita su spiedi di legno. Il suono di
flauti e tamburelli accompagnava i movimenti dei guerrieri ayyubidi, le loro
armature di cuoio e acciaio che riflettevano la luce come specchi. Cammelli,
drappeggiati di coperte di seta dai colori vivaci, ruminavano accanto a fontane
di pietra scolpita, l’acqua che gorgogliava come una preghiera sommessa.
Francesco e Illuminato, scortati da guardie con scimitarre
ricurve e turbanti neri, entrarono nella tenda del Califfo, i piedi scalzi che
affondavano nei tappeti persiani, morbidi come muschio e intrisi dell’odore di
spezie e lana. L’aria all’interno era fresca, un miracolo nel calore del
deserto, impregnata di incenso e di quel misterioso profumo di rose selvatiche
che sembrava seguire Francesco ovunque. Le guardie, con i volti scolpiti dalla
diffidenza, sussurravano tra loro, i loro occhi che guizzavano verso il frate
scalzo, come se cercassero di decifrare il mistero di quell’uomo disarmato.
Al-Malik al-Kamil, 39 anni, sedeva su un trono di legno
intarsiato d’avorio, la tunica verde e oro che catturava la luce delle lampade
di ottone appese al soffitto della tenda. Un turbante ornato da una piuma di
pavone gli cingeva la fronte, e i suoi occhi scuri, penetranti come lame,
scrutavano i frati con una miscela di curiosità e cautela. La barba nera,
curata con precisione, incorniciava un volto segnato dalle responsabilità della
guerra, ma la sua voce era calma, come un ruscello che scorre su pietre levigate.
“Chi sei, cristiano, per attraversare un campo di battaglia senza armi?”
chiese, posando una mano sul Corano rilegato in pelle che riposava accanto a
lui, il cuoio decorato con arabeschi d’oro. “I tuoi crociati muoiono sotto le
mie mura, eppure tu, un mendicante scalzo, sei qui, come se la morte non ti
sfiorasse.”
Francesco, inginocchiandosi con un fruscio del saio, alzò lo
sguardo, il crocifisso d’argento che oscillava come un pendolo al ritmo del suo
respiro. “Sono Francesco, servo di Dio,” disse, la voce chiara e melodiosa,
come il suono di una campana che chiama alla preghiera. “Non sono venuto per
combattere, ma per parlare di pace. Il mio Signore, Yeshua, mi ha mandato a te,
fratello, perché ogni uomo è Suo figlio, creato dalla stessa mano divina.” Le
sue parole erano semplici, ma portavano una forza che sembrava riempire la
tenda, come un vento che spazza via la polvere.
Al-Kamil rise, un suono caldo che era più meraviglia che
scherno, gli occhi che si accendevano di un interesse genuino. “Un frate
povero, che passa tra spade e frecce come un’ombra,” disse, alzandosi dal
trono, la tunica che emanava un profumo di sandalo e incenso. “Dimmi,
Francesco, cosa ti guida? È follia, o è la fede che ti rende così audace?”
Illuminato, accanto a Francesco, abbassò lo sguardo, le dita che stringevano il
rosario con forza, come se cercasse di ancorarsi alla terra. “Mio signore,” disse,
la voce tremante ma rispettosa, “Francesco segue il Vangelo, che ci ordina di
amare ogni uomo, anche il nemico.” La sua bisaccia, logora e polverosa, scivolò
a terra, e un tozzo di pane secco rotolò sul tappeto, un gesto goffo che fece
sorridere il Sultano.
“Un uomo che porta pane, non spade,” disse al-Kamil,
avvicinandosi a Francesco, la piuma di pavone che tremava leggermente nel
movimento. “Parla, frate. Cosa vuoi da me?” Il suo tono era un misto di
curiosità e sfida, come se volesse mettere alla prova l’anima di quell’uomo
strano che non temeva la morte.
Francesco si rialzò, il crocifisso che scintillava come un
faro. “Non voglio nulla, se non condividere la gioia di Dio,” disse, gli occhi
castani che brillavano di lacrime trattenute. “Lascia che ti racconti di
Yeshua, che ha perdonato i suoi carnefici, che ha vissuto per i poveri, che ha
chiamato ogni uomo fratello.” Il profumo di rose si intensificò, un refolo
caldo che portava con sé una nota di mostaccioli, come se un forno invisibile
cuocesse dolci in un angolo della tenda. Al-Kamil, colpito, tornò a sedersi, il
volto che si ammorbidiva come cera sotto una fiamma. “Parla, allora,” disse,
battendo le mani per ordinare tè e datteri. “Non temo le tue parole, ma sono
curioso di un uomo che sfida la morte per un’idea.”
Per ore, Francesco parlò, la voce che si alzava e si
abbassava come un canto, raccontando di Yeshua, della povertà come via per la
santità, dell’amore che abbraccia ogni creatura. L’odore di incenso si
mescolava al suono del Nilo che scorreva fuori dalla tenda, un sottofondo che
rendeva le sue parole ancora più vive. Al-Kamil lo interruppe con domande
affilate, la mente come una scimitarra che cercava di tagliare ogni debolezza:
“Come può un uomo perdonare chi lo uccide? Come può la tua fede convivere con la
mia, che venera Allah e il Suo Profeta?” Francesco rispondeva con parabole
semplici, il volto illuminato da una luce che sembrava venire da un altro
mondo. Raccontò del Buon Samaritano, dell’uomo che aiuta il nemico ferito, e
del Figlio Prodigo, accolto dal padre nonostante i suoi errori. Ogni parola era
un seme piantato nella tenda, e anche le guardie, inizialmente rigide,
cominciarono ad ascoltare, i volti che si rilassavano.
Illuminato, in silenzio, pregava, il rosario che scivolava
tra le sue dita, il sudore che gli imperlava la fronte sotto il peso di quella
scena. Sentiva il cuore battere forte, come se il Signore stesso fosse presente
nella tenda, un testimone invisibile di quel dialogo tra due mondi. Ogni tanto,
alzava lo sguardo verso Francesco, meravigliandosi di come un uomo così fragile
potesse parlare con la forza di un profeta.
Alla fine, al-Kamil si alzò, il volto sereno, come se un peso
fosse stato sollevato dal suo cuore. “Non abbraccerò la tua fede, frate,”
disse, la voce calma ma decisa, “ma rispetto la tua anima. Sei un uomo di Dio,
e il mio Dio, Allah, ama chi cerca la pace.” Batté le mani, chiamando le
guardie. “Dove vuoi andare, Francesco? Ti darò una scorta per proteggerti.”
Francesco, con un sorriso che era luce pura, rispose:
“Desidero visitare il Monastero di Santa Caterina, nel Sinai, per pregare nella
grotta dei Sette Santi Dormienti. Lì, forse, Dio mi parlerà ancora.” Al-Kamil,
stupito, inarcò un sopracciglio, la piuma di pavone che ondeggiava come una
fiamma. “Un luogo sacro anche per noi musulmani,” disse, la voce che tradiva un
rispetto profondo. “Vai, frate, e che il tuo Dio e il mio ti guidino.” Ordinò a
una decina di cavalieri beduini, con cavalli bianchi e lance ornate di piume
colorate, di scortare i frati attraverso il deserto.
Illuminato, inginocchiandosi accanto a Francesco, sussurrò:
“Fratello, il tuo coraggio ha aperto il cuore di un re.” Francesco, sfiorando
il crocifisso, rispose con voce dolce: “Non il mio coraggio, Illuminato. È il
Signore che parla attraverso la povertà.” Il profumo di rose li avvolse, un
vento caldo che fece tremare le tende, come se il cielo stesso approvasse quel
momento.
Prima di lasciare il campo, al-Kamil fece portare un vassoio
d’argento con datteri, fichi e un piccolo pane speziato, un gesto di ospitalità
che sorprese Illuminato. Francesco accettò un dattero, il sapore dolce che gli
riempì la bocca, e lo mangiò lentamente, come se fosse un dono del cielo.
“Grazie, fratello,” disse al Sultano, il volto illuminato da un sorriso.
Al-Kamil, ricambiando lo sguardo, annuì. “Che tu possa trovare ciò che cerchi,
Francesco,” disse, e per un istante, i due uomini, così diversi, sembrarono
uniti da un filo invisibile, tessuto dalla fede.
Il deserto del Sinai era un mare sconfinato di dune dorate e
rocce rosse, scolpite dal vento in forme che sembravano antichi templi
dimenticati. Il sole, un disco di fuoco, bruciava la pelle come un giudizio
divino, e l’aria tremolava per il calore, portando con sé l’odore secco della
sabbia, della salvia selvatica e dello sterco di cammello. Il silenzio del
deserto era rotto solo dal fischio del vento che si insinuava tra le gole
rocciose, dal tintinnio delle perline sulle selle dei cavalieri beduini, e dal
ritmico scalpiccio degli zoccoli dei cavalli bianchi, drappeggiati di coperte
di seta che ondeggiavano come onde. Le lance dei cavalieri, ornate di piume
colorate, scintillavano come fari sotto il sole, e i rifornimenti, sacchi di
grano, otri d’acqua, e coperte di lana, pesavano sugli animali, che sbuffavano
sotto il carico.
Francesco e Illuminato camminavano scalzi accanto alla
carovana, i piedi sanguinanti che lasciavano tracce effimere nella sabbia,
subito cancellate dal vento. Il saio di Francesco, ormai ridotto a brandelli,
odorava di sudore, terra e salsedine, il crocifisso d’argento che bruciava
contro il petto come un tizzone. Quel profumo di rose selvatiche, inspiegabile
in un luogo così arido, lo seguiva come un’ombra, intrecciandosi a una nota
calda di mostaccioli che gli faceva sorridere le labbra screpolate. Ogni tanto,
si fermava a raccogliere un ciottolo liscio, tenendolo tra le dita come un
rosario, e sussurrava: “Sorella pietra, loda il Creatore.”
Illuminato, con la borraccia quasi vuota che pendeva dalla
cintura, si asciugava il volto bruciato dal sole, la barba nera incrostata di
polvere che lo faceva sembrare più vecchio dei suoi anni. “Fratello,” disse, la
voce rauca come la sabbia che gli graffiava la gola, “questo deserto è una
prova mandata da Dio. Come fai a cantare salmi quando i piedi sanguinano e la
sete ci tormenta?” Francesco, con gli occhi accesi e le labbra screpolate, posò
una mano sulla sua spalla, il rosario di corda che oscillava al vento.
“Illuminato, il dolore è un canto, se lo offri a Dio,” disse, alzando lo
sguardo al cielo, dove il crepuscolo cominciava a dipingere il deserto di
sfumature viola e arancio. “Guarda, le stelle sono sorelle che ci guidano, e
ogni granello di sabbia è un versetto della Sua gloria.”
I cavalieri beduini, inizialmente diffidenti, iniziarono a
osservare Francesco con curiosità. Uno di loro, Yusuf, un uomo dal volto
segnato dal sole e con un turbante color ocra, si avvicinò durante una sosta,
porgendo a Francesco un dattero e un pezzo di pane azzimo. L’odore dolce e
terroso del cibo era un conforto in quel mare di sabbia. “Tu sei strano,
cristiano,” disse Yusuf, la voce profonda ma non ostile. “Non temi la morte,
eppure non porti armi. Cosa ti protegge?” Francesco, sfiorando il crocifisso,
sorrise, i denti bianchi che brillavano contro la pelle bruciata. “La mia arma
è l’amore, Yusuf. È più forte di qualsiasi lancia, perché viene da Dio.” Yusuf,
dopo un momento di silenzio, annuì, un sorriso che spuntava tra la barba.
“Forse sei un poeta, frate,” disse, passandogli un altro dattero.
Le notti nel Sinai erano fredde, il vento che portava
sussurri che sembravano preghiere antiche. Una sera, accampati sotto una
sporgenza rocciosa, il crepitio del falò che odorava di legno di acacia
riempiva l’aria. Francesco, avvolto nel saio, fissava le fiamme, il crocifisso
che rifletteva la luce come una stella. Sognò sette figure luminose, con
tuniche bianche che brillavano come neve al sole, che parlavano di un diario.
Si svegliò di soprassalto, il profumo di rose più intenso, il cuore che martellava
nel petto. “Illuminato,” sussurrò, la voce tremula, “il Signore prepara
qualcosa di grande.” Illuminato, avvolto nel saio accanto al fuoco, mormorò:
“Che sia la Sua volontà, fratello.” Il freddo della notte mordeva le ossa, ma
il calore del crocifisso sembrava scaldare Francesco, come un fuoco interiore
che non si spegneva.
Durante il viaggio, i beduini iniziarono a raccontare storie
intorno al fuoco, parlando di santi e profeti che avevano camminato nel Sinai.
Francesco ascoltava, il volto illuminato dal bagliore delle fiamme, e ogni
tanto aggiungeva una parabola di Yeshua, traducendo l’amore universale in
parole che risuonavano anche per loro. Una notte, un cavaliere più giovane, con
occhi curiosi, chiese: “Frate, perché vai a Santa Caterina? Cosa cerchi in una
grotta?” Francesco, stringendo il rosario, rispose: “Cerco solo di ascoltare
Dio, fratello. E a volte, Egli parla nel silenzio di una grotta.” I beduini,
colpiti, tacquero, il vento che portava
via le loro parole come offerte al cielo.
Il Monastero di Santa
Caterina, ai piedi del Monte Sinai, si ergeva come un baluardo di pietra
dorata, le mura levigate dal sole e dal vento, impregnate dell’odore di
incenso, cera bruciata e olive schiacciate. Le cappelle, illuminate da lampade
che tremolavano come stelle, erano un rifugio di pace in mezzo al deserto. I
monaci ortodossi, con barbe lunghe e tuniche nere che frusciavano come ali,
accolsero Francesco e Illuminato con pane caldo, olive salate e acqua fresca,
un dono che sembrava un miracolo dopo giorni di sete. Il profumo di rose
selvatiche che seguiva Francesco si mescolava agli odori del monastero,
suscitando sussurri tra i monaci, che si segnavano con gesti lenti, come se
riconoscessero un segno divino.
La grotta dei Sette Santi Dormienti, scavata nella roccia del
monte, era un santuario di silenzio e mistero. Le pareti, umide e fresche,
erano incise con croci cristiane, mezzelune islamiche e versetti del Corano, un
mosaico di fedi che si intrecciavano in quel luogo sacro. L’odore di cera
bruciata, terra umida e rose selvatiche impregnava l’aria, il suono di un
ruscello sotterraneo che echeggiava come un salmo antico. Francesco,
inginocchiandosi, posò il crocifisso d’argento a terra, il metallo che scintillava
nella luce tremula delle lampade. Il rosario gli scivolava tra le dita callose,
ogni nodo una preghiera che lo avvicinava a Dio. Illuminato, accanto a lui,
pregava in silenzio, il volto illuminato da una luce che sembrava venire
dall’interno. “Fratello,” sussurrò, la voce un filo sottile, “sento una
presenza qui. È come se i Sette ci guardassero, vegliando su di noi.”
Francesco, con gli occhi chiusi, il saio che odorava di
sabbia e sudore, annuì. “Sii quieto, Illuminato. Il Signore parla nel
silenzio.” Mentre pronunciava quelle parole, un bagliore dorato eruttò nella
grotta, un sole che nasceva dalla roccia stessa. L’aria si riempì di un profumo
intenso di incenso, rose e mostaccioli, un calore che avvolgeva i frati come un
mantello celeste. Sette figure apparvero, i loro nomi—Massimiliano, Malchiano,
Martiriano, Dionisio, Giovanni, Serapione, Costantino—risuonavano nel cuore di
Francesco come un canto. Le loro tuniche bianche scintillavano come neve al
sole, i volti giovani ma segnati dal peso di secoli, gli occhi che brillavano
di una luce antica.
Massimiliano, il leader, avanzò, la sua voce un tuono morbido
che vibrava nella roccia. “Francesco, servo di Dio, sei degno,” disse, gli
occhi castani che bruciavano come tizzoni. “Ti affidiamo il diario Parole di
Yeshua, Figlio dell’Uomo, la voce di colui che ha visto Dio nei poveri.” Un
libro di cuoio marrone-rossastro, con una croce incisa sulla copertina, apparve
nelle sue mani, caldo come brace viva, le pagine che pulsavano di una luce
soffusa. Francesco, con lacrime che gli rigavano il volto, lo prese, il calore
che gli bruciava le mani ma che non lo feriva, il profumo di rose che lo
avvolgeva come una benedizione. “Cosa devo fare, fratelli?” chiese, la voce
tremante, il crocifisso che scintillava al suo collo.
Malchiano, con una cicatrice che gli attraversava la guancia,
parlò, la voce dolce come un salmo: “Portalo con te, ma non aprirlo. Consegnalo
solo a chi sarà degno, in un tempo che Dio sceglierà.” Martiriano, con occhi
verdi come smeraldi, posò una mano sulla spalla di Illuminato, un tocco che
odorava di rose e portava pace. “La vostra povertà è la chiave, Illuminato,”
disse. “Custodite il diario, e i Sette veglieranno su di voi.”
Le figure svanirono, il bagliore che si dissolse come nebbia,
lasciando un refolo di rose e mostaccioli che si posò sul diario. Francesco,
stringendo il libro contro il petto, si rialzò, il volto illuminato da una
missione eterna. “Illuminato,” disse, la voce ferma come la roccia della
grotta, “questo è un peso santo. Non siamo noi a scegliere, ma Dio.” Frate Illuminato,
con il rosario stretto tra le mani, annuì, le lacrime che gli rigavano il viso.
“Che la Sua volontà ci guidi, fratello,” sussurrò, il cuore pieno di timore e
meraviglia.
Prima di lasciare la grotta, Francesco si fermò a tracciare
una croce sulla parete con un pezzo di carbone, un gesto semplice che sembrava
sigillare quel momento. I monaci, che avevano atteso fuori, li accolsero con
silenzio reverente, come se percepissero il peso di ciò che era accaduto. Uno
di loro, un anziano con occhi chiari, porse a Francesco un piccolo vaso di olio
profumato, un dono per il viaggio. “Che il Signore ti protegga, frate,” disse,
la voce tremula. Francesco, sorridendo, accettò il dono, l’odore di mirra che
si mescolava al profumo di rose.
Il ritorno in Italia fu un’odissea che durò mesi, un viaggio
attraverso il Mediterraneo su una nave mercantile che odorava di salsedine,
catrame e legno umido. Le onde cantavano salmi sotto un oceano di stelle, e
Francesco, con il diario nascosto nel saio, pregava ogni notte, il crocifisso
d’argento che bruciava contro il petto. Il profumo di rose lo seguiva anche in
mare, un segno che lo confortava nelle notti fredde, quando il vento ululava
tra le sartie. Illuminato, accanto a lui, scrutava l’orizzonte, la bisaccia
ormai vuota che pendeva dalla cintura. “Fratello,” disse una notte, la voce
stanca ma carica di speranza, “questo diario… cambierà il mondo?” Francesco,
con un sorriso stanco, posò una mano sul libro, sentendo il calore che pulsava
sotto il cuoio. “Non noi, Illuminato,” disse. “Dio lo userà, quando sarà il
momento.”
Durante il viaggio, la nave fece scalo a Cipro, dove i frati
si fermarono per qualche giorno. L’odore di agrumi e mare li accolse, e
Francesco, nonostante la stanchezza, predicò ai pescatori del porto, parlando
dell’amore di Dio con parole semplici che toccavano i cuori. Un pescatore,
commosso, offrì loro un cesto di fichi freschi, il sapore dolce che sembrava
un’eco del paradiso. Frate Illuminato, mangiando un frutto, guardò Francesco e
disse: “Fratello, ovunque andiamo, la tua voce porta luce.” Francesco,
sfiorando il crocifisso, rispose: “Non è la mia voce, ma quella di Yeshua.”
Ad Assisi, Francesco tornò indebolito da malattie, digiuni e
dal peso della missione. Continuò a predicare la povertà, il diario custodito
in segreto, nascosto sotto il saio come un tesoro. Nel 1226, a 44 anni, la
morte si avvicinò, un’ombra gentile che lo chiamava con dolcezza. Nella
Porziuncola, l’odore di paglia, cera e terra impregnava l’aria, un rifugio
semplice che odorava di casa. Francesco, steso su una stuoia, chiamò Frate Illuminato
e pochi frati fidati, il volto scavato ma sereno, gli occhi che brillavano di
una pace ultraterrena. “Fratelli,” disse, la voce un sussurro che sembrava
portare il peso del cielo, “il diario deve riposare fino al tempo scelto da
Dio. Nascondetelo.
Scavarono una cripta in segreto nella roccia, un santuario di
pietra fredda, illuminato da torce che odoravano di resina. Croci e simboli dei
Sette Dormienti furono incisi sulle pareti, un’eco della grotta del Sinai.
Francesco, con l’ultimo respiro, sfiorò il crocifisso, il profumo di rose
selvatiche che si alzava inspiegabilmente, come un’offerta al cielo. Morì il 3
ottobre 1226, il corpo steso sulla nuda terra, mentre i frati cantavano il Cantico
delle Creature, le voci che si mescolavano al crepitio delle torce.
Frate Illuminato, con lacrime che gli rigavano il viso, posò
il diario nella cripta, sigillandola con una pietra incisa con una croce. “Che
i Sette lo custodiscano,” sussurrò, il rosario che tremava tra le sue mani. Il
diario, caldo e pulsante, attese nel silenzio, il suo profumo di rose un
sussurro che attraversava i secoli, fino al 2026, quando Sofia Martelli,
guidata da un sogno, l’avrebbe trovato, aprendo un nuovo capitolo della sua
storia.
Capitolo
2
La
Cripta dei Sette Santi Dormienti
Assisi, Italia, 15 giugno 2026
La Basilica di San Francesco si ergeva tra le colline umbre
come un faro scolpito nel tempo, le sue mura di calcare rosa e bianco che
catturavano la luce dorata di un sole di giugno, tingendo la pietra di
sfumature calde come il miele. Le ombre delle torri danzavano sui ciottoli del
sagrato, il vento portava un mosaico di profumi: lavanda selvatica che
ondeggiava nei sentieri polverosi, olio d’oliva che evaporava dai frantoi
vicini, e cera bruciata che si alzava dalle cappelle interne, un odore sacro
che si intrecciava al rintocco profondo delle campane. Quel suono, antico come
le colline, vibrava nelle ossa, un canto che sembrava chiamare i pellegrini da
ogni angolo del mondo. Uomini e donne, con sandali logori e rosari di legno
stretti tra le dita, affollavano il sagrato, le loro voci, un intreccio di
italiano, polacco, giapponese, e spagnolo, che si mescolavano al mormorio del Cantico
delle Creature, intonato da un gruppo di fedeli sotto un ulivo secolare. I
frati in sai marrone, con volti segnati dal sole e dalla preghiera, guidavano i
gruppi verso la tomba di San Francesco, l’odore di incenso che li avvolgeva
come un mantello invisibile. Accanto al portone, un carretto di legno vendeva
mostaccioli, il loro aroma di miele, noci e cannella che si diffondeva
nell’aria, evocando il santo in ogni morso. Eppure, un sentore di rose
selvatiche, dolce e inspiegabile, si intrecciava a quel profumo, come un
sussurro divino che aleggiava solo per chi sapeva ascoltare.
Sofia Martelli, 35 anni, archeologa del CNR, sedeva
nell’ufficio di Padre Anselmo, custode della Basilica, il cuore che martellava
sotto il peso di un sogno ricorrente che non la lasciava dormire. L’anticamera
era un rifugio di ombre, odorante di cera bruciata, inchiostro secco e muffa
antica, le pareti coperte da affreschi sbiaditi di angeli con ali che
sembravano tremare alla luce tremula di una candela. Un crocifisso di quercia,
scuro e levigato dal tempo, dominava la scrivania ingombra di registri polverosi
e penne consumate, il legno che emanava un odore di resina e storia. Padre
Anselmo, 60 anni, con rughe profonde come solchi in un campo e occhi grigi che
sembravano vedere oltre le parole, sfogliava un fascicolo con gesti lenti, il
rosario di legno che scivolava tra le sue dita callose, un ritmo teso come un
tamburo di guerra.
Sofia, con i capelli castani raccolti in una coda
disordinata, incrostati di polvere dai giorni passati nei cantieri
archeologici, stringeva un taccuino pieno di schizzi e annotazioni, gli occhi
verdi velati da un misto di determinazione e dubbio. Il crocifisso d’argento al
collo, un dono di un frate incontrato anni prima a Gerusalemme, bruciava contro
la sua pelle, un calore che la faceva trasalire, come se fosse vivo. E se
fosse tutto un’illusione? pensava, il respiro corto, le dita che sfioravano
il bordo del taccuino, dove aveva disegnato una croce incisa su una lastra di
pietra, vista in sogno. La sua borsa di tela, odorante di terra umida e metallo
ossidato, era piena di documenti: permessi ufficiali, lettere di
raccomandazione, analisi georadar che confermavano una cavità nascosta. Ogni
foglio era una battaglia vinta contro il tempo e la burocrazia, ma anche un
peso che le schiacciava il petto.
“Dottoressa Martelli,” disse Padre Anselmo, la voce un misto
di sospetto e stanchezza, come se ogni parola gli costasse fatica, “la cripta
dei Sette Dormienti è sacra, un luogo di fede, non di scienza. Il Cardinale
Rossi dubita delle sue intenzioni. Perché un’archeologa insiste su un sito che
appartiene al cuore dei fedeli?” Il suo sguardo era una lama, ma Sofia non si
lasciò intimidire. Posò sul tavolo una pila di documenti, le mani che tremavano
leggermente, il rumore della carta che frusciava come un sussurro nella stanza.
“Padre,” disse, la voce rotta ma ferma, come un ruscello che scorre su pietre
levigate, “il georadar mostra una cavità sotto la cripta, un vuoto che potrebbe
custodire qualcosa di straordinario, legato ai Sette Dormienti—Massimiliano,
Malchiano, Martiriano, Dionisio, Giovanni, Serapione, Costantino… e il cane Qitmir,
il loro guardiano. Potrebbe collegarsi a San Francesco, a un segreto che ha
custodito dopo il suo viaggio in Egitto.” Il crocifisso d’argento scintillò
sotto la luce della candela, e il profumo di rose selvatiche si intensificò,
mescolandosi a una nota di mostaccioli che sembrava provenire dal sagrato. Quel
profumo, inspiegabile, le fece battere il cuore più forte, come un segno che la
chiamava.
Padre Anselmo inarcò un sopracciglio, il rosario che
scricchiolava tra le sue dita. “La fede non si misura con strumenti, Sofia,”
disse, il tono più morbido ma ancora cauto. “Cosa cerchi davvero? Non è solo
scienza, lo vedo nei tuoi occhi.” Sofia, con le lacrime che premevano agli
angoli degli occhi, si sporse in avanti, il crocifisso che bruciava come un
tizzone. “Non so perché lo sento, Padre,” disse, la voce un sussurro che
tremava di emozione, “ma devo cercare. Un sogno… rose, un libro ardente, una voce
che mi chiama. Non posso ignorarlo.”
Le difficoltà erano iniziate sei mesi prima, in una sala del
Dicastero per i Beni Culturali a Roma, odorante di velluto polveroso e cera di
candele. Il Cardinale Marco Rossi, 60 anni, con occhi di ghiaccio che
sembravano scavare nell’anima e una croce d’oro al collo che brillava come
un’arma, l’aveva interrogata senza calore: “Perché i Sette Dormienti,
dottoressa? Perché proprio quel sito?” Sofia, con il taccuino stretto tra le
mani, aveva risposto con calma, anche se il cuore le batteva forte: “È un sito
unico, eminenza, un ponte tra cristianesimo e islam, un luogo dove San
Francesco potrebbe aver lasciato un segno.” Rossi aveva annuito, ma il suo
sguardo, pesante come piombo, aveva promesso ostacoli. Aveva ritardato i
permessi, richiedendo analisi sempre più dettagliate, ogni richiesta un muro da
scalare.
Clara Bellini, fisica del CNR e amica di Sofia, aveva
confermato la cavità con il georadar durante un incontro in un bar romano,
l’aria impregnata dell’odore di caffè tostato e zucchero. “C’è qualcosa là
sotto, Sofia,” aveva detto Clara, i capelli biondi raccolti in una treccia
ordinata, gli occhi azzurri che scintillavano di curiosità scientifica. “Ma
stai attenta. Il Vaticano nasconde qualcosa, e Rossi non è solo un cardinale.”
Sofia, sorseggiando un espresso amaro, aveva sentito un brivido, il crocifisso
d’argento che pulsava contro la pelle. Le notti insonni, passate a studiare
documenti antichi in una stanza odorante di carta e inchiostro, erano state una
battaglia contro il dubbio, ma il crocifisso, come una stella polare, la
guidava verso la verità.
Padre Anselmo sospirò, il rosario che scricchiolava tra le
sue dita come un avvertimento. “Il Dicastero ha autorizzato lo scavo,” disse,
il tono rassegnato ma fermo, “ma i custodi della Basilica vi sorveglieranno.
Non profanate la cripta, Sofia. Non svegliate ciò che deve restare sepolto.”
Sofia annuì, il profumo di mostaccioli dal sagrato che le scivolava nella mente
come un conforto, un refolo di rose selvatiche che le sfiorava la pelle. Si
alzò, il taccuino stretto al petto, il cuore pieno di un fuoco che non poteva
spegnere. “Grazie, Padre,” disse, la voce calma ma decisa. “Troverò ciò che Dio
vuole che trovi.”
Mentre usciva dall’ufficio, il suono delle campane la
avvolse, un richiamo che sembrava benedire la sua missione. Un pellegrino, un
anziano con un bastone intarsiato, le sorrise, porgendole un mostacciolo. “Per
il viaggio, sorella,” disse, la voce roca ma gentile. Sofia accettò il dolce,
il sapore di miele e cannella che le scaldò il cuore, e si avviò verso la
Basilica Inferiore, pronta a sfidare il mistero che l’aspettava.
La Basilica Inferiore era un santuario di ombre e luci, un
mondo sospeso tra il divino e l’umano. Gli affreschi di Giotto, con i loro
colori vividi ma sbiaditi dal tempo, sembravano osservare il team di Sofia con
occhi vivi, le figure di santi e angeli che danzavano sotto la luce tremula
delle candele. L’odore di incenso, cera bruciata e pietra umida impregnava
l’aria, un abbraccio antico che avvolgeva i sensi. Il suono dei passi del
gruppo echeggiava come un salmo, amplificato dalle volte di pietra, mentre il
gocciolio dell’acqua, lontano e costante, sembrava un battito cardiaco della
Basilica stessa.
Sofia, con una torcia LED che illuminava il suo volto teso,
guidava il team, Clara Bellini, Luca, Anna, Marco, Elena, verso la cripta dei
Sette Dormienti, nascosta dietro un altare di marmo screziato. Il crocifisso
d’argento al collo pulsava contro la sua pelle, un calore che le faceva tremare
le mani. E se non trovassi nulla? pensava, il dubbio che le mordeva
l’anima come un vento freddo. Clara, con un tablet che emetteva bip regolari,
camminava accanto a lei, gli occhi azzurri fissi sullo schermo. “La cavità è
proprio sotto la cripta, Sofia,” disse, la voce precisa ma con una nota di
eccitazione. “Le letture sono anomale, più forti di qualsiasi cosa abbia mai
visto.” Marco, un archeologo con i capelli brizzolati e un sorriso sarcastico,
reggeva una torcia, la luce che danzava sul suo volto. “Magari è il diario di
Francesco, eh?” disse, la voce che grondava ironia. Anna, con un blocco per
appunti stretto al petto, annotava ogni dettaglio in silenzio, i suoi occhi
castani concentrati. Elena, incaricata degli strumenti, trasportava un
treppiede e una scatola di sensori, il volto teso ma determinato. Luca, il più
giovane del gruppo, armeggiava con un treppiede fotografico, mormorando:
“Questo posto è inquietante. Sembra che ci osservi.”
La cripta, accessibile attraverso una scala stretta e
odorante di muschio, terra umida e un sentore inspiegabile di rose selvatiche,
era un santuario di silenzio. Le pareti, fredde al tatto, erano incise con
croci cristiane, mezzelune islamiche e il nome “Qitmir”, il cane leggendario
dei Sette Santi Dormienti, simbolo di fedeltà eterna. Frate Matteo, Frate Elia
e Frate Giovanni, membri della Custodia Sacra, accompagnavano il team, i loro
sai marrone che frusciavano come foglie secche. Frate Matteo, con occhi vigili
e un dispositivo per il controllo di microcamere, sparse in tutta la basilica, al
polso, monitorava ogni angolo; Frate Elia, con un’Uzi e una lama in titanio
nascoste sotto il saio, scrutava le ombre con la tensione di un guerriero;
Frate Giovanni, con un tablet per gestire microfoni ambientali, aveva il volto
teso, le dita che tamburellavano nervosamente. La loro missione, taciuta al
team, era proteggere gli archeologi da Specter, un’ombra globale che li
braccava per motivi che Sofia non conosceva. Il gocciolio dell’acqua, lento e
ritmico, si mescolava al profumo di cera e rose, un mistero che fece sobbalzare
Sofia, il crocifisso che bruciava come un tizzone.
Davanti a una lastra di pietra incisa con una croce, Sofia si
fermò, il cuore che batteva forte, le lacrime che le velavano gli occhi. “Qui,”
sussurrò, la voce un filo tremulo, il crocifisso d’argento che pulsava al ritmo
del suo respiro. Luca e Marco, con i muscoli tesi sotto le camicie sporche di
polvere, sollevarono la lastra, l’odore di terra antica che si alzò come un
velo, pizzicando le narici. Clara, con il tablet che vibrava per le letture
anomale, disse: “Le anomalie sono fuori scala. C’è qualcosa di vivo là sotto.”
Marco, con un ghigno, rise: “Un libro magico, magari? Scritto da un santo?”
Anna ed Elena, silenziose, aiutavano a stabilizzare la lastra, i volti
concentrati ma con un’ombra di timore.
La lastra si spostò con un gemito, rivelando una nicchia
scavata nella roccia. Al suo interno, un libro di cuoio marrone-rossastro, con
una croce incisa sulla copertina, pulsava di una luce soffusa, come un cuore
che batte. Il diario Parole di Yeshua, Figlio dell’Uomo emanava un
profumo di rose selvatiche e incenso, un bagliore dorato che illuminò la
cripta, le ombre che danzavano come angeli sulle pareti. Sofia, travolta, si
inginocchiò, le mani che tremavano mentre sfiorava il cuoio caldo. “È… vivo,”
balbettò, gli occhi spalancati, le lacrime che cadevano sulla copertina. “È
vero?” Clara, scettica, si avvicinò, il tablet che tremava nelle sue mani. “È
un oggetto, Sofia,” disse, la voce ferma ma incrinata da un dubbio. “Devo
analizzarlo in laboratorio.” Marco, con un sorriso ironico, disse: “Sicura?
Sembra che canti una messa.” Anna ed Elena si misero accanto a Sofia, pronte a
proteggere il diario, i loro respiri che si mescolavano al gocciolio
dell’acqua.
Nella mente di Sofia, un’immagine si accese: Francesco nella
grotta del Sinai, il diario tra le sue mani, il volto illuminato da una luce
ultraterrena. “È suo,” sussurrò, il crocifisso d’argento che scintillava come
una stella. Ma il momento fu spezzato da un rumore di passi pesanti che
echeggiò dalla scala. Frate Matteo irruppe, la voce un grido che ruppe il
silenzio: “Muovetevi! Seguitemi!” Frate Elia, con la lama in titanio pronta,
scrutava la scala con occhi di falco. Frate Giovanni, con il tablet in mano,
disse: “Ora! Non c’è tempo!” Sofia, confusa, balbettò: “Chi siete voi,
davvero?” Clara, logica, afferrò il tablet e disse: “Spiegate, subito!” Marco,
ironico, ansimò: “Bel momento per una fuga, frati.” Anna ed Elena afferrarono
le borse, i volti tesi come corde di un arco. Frate Matteo, con occhi di fuoco,
disse: “Dopo! Correte!” Il profumo di rose si intensificò, un vento caldo che
avvolse il diario, spingendo il team verso la fuga, come se il libro stesso li
guidasse.
Mentre correvano, Sofia strinse il diario al petto, il calore
del cuoio che le bruciava la pelle ma non feriva. Sentì un’onda di calore
salirle al cuore, come se il libro le parlasse, un sussurro che diceva: Non
temere. Clara, accanto a lei, controllava il tablet, i bip che si
mescolavano al suono dei loro passi. “Non capisco,” mormorò, “ma questo posto…
è vivo.” Marco, dietro di loro, borbottò: “Vivo o no, qualcuno ci vuole morti.”
Il gocciolio dell’acqua si fece lontano, sostituito dal battito frenetico dei
loro cuori.
Il pericolo aveva un nome: Specter, un’organizzazione
globale finanziata da corporazioni, governi corrotti e, si mormorava, dal
Cardinale Marco Rossi. Operava nell’ombra, guidata da Miriam Levy, 38 anni, ex
agente del Mossad, ebrea ortodossa con un tallit che odorava di lana e fede. Da
un bunker a Roma, impregnato dell’odore di caffè bruciato, acciaio freddo e
circuiti surriscaldati, Miriam coordinava una squadra letale: Johan Kruger, 45
anni, mercenario sudafricano con occhi di pietra e mani che odoravano di
polvere da sparo; Dmitri Volkov, 40 anni, ex Spetsnaz con mani da strangolatore
e un coltello che scintillava come ghiaccio; Chloe Patel, 30 anni, hacker
londinese con dita che danzavano sui tasti come un pianista; Amira Hassan, 35
anni, sniper siriana con un mirino che non sbagliava mai. Miriam pregava con la
Torah ogni sera, ma il diario scuoteva la sua fede.
Il team di Sofia, scortato dalla Custodia Sacra, corse
attraverso i corridoi della Basilica Inferiore, l’odore di incenso e sudore che
si mescolava al suono dei loro passi, un tamburo di paura che rimbombava tra le
pareti. Sofia, con il diario stretto al petto, sentiva il profumo di rose
selvatiche, ma il dubbio la tormentava: È davvero Yeshua? O è solo la mia
immaginazione? Clara, con il tablet che lampeggiava, disse: “Chi ci
insegue? Ho bisogno di dati, non di misteri!” Marco, ansimando, replicò con
sarcasmo: “Dati? Serve un miracolo, Clara.” Anna ed Elena proteggevano il
gruppo, i volti duri come pietra, le mani pronte a reagire.
Frate Matteo, con le microcamere che trasmettevano immagini
sfocate, monitorava il pericolo. “Tre agenti di Specter,” disse, la voce tesa
come una corda. Frate Elia affrontò Dmitri Volkov in un chiostro illuminato
dalla luna, la lama in titanio che incise il suo braccio, l’odore di sangue si
alzò nell’aria fresca. Volkov, con un ringhio, colpì Frate Elia alla mano, un
pugno che odorava di cuoio e sudore, ma Elia rispose con una raffica di Uzi, il
clangore metallico che echeggiò tra le colonne di pietra. Frate Giovanni, con
un drone, lanciò fumogeni, l’odore acre che oscurò il chiostro, una nebbia che
bruciava gli occhi e pizzicava la gola. Chloe Patel, hackerando le telecamere
della Basilica da un laptop nascosto, fu bloccata da Frate Matteo, che inviò
un’interferenza digitale, ferendosi la mano con una scheggia di metallo, il
sangue che gocciolava sul tablet. Amira Hassan, appostata su un tetto con il
suo fucile di precisione, mirò al gruppo, ma un fumogeno la disorientò, il
vento che portava un odore di zolfo e polvere.
Johan Kruger intercettò il team vicino a un’uscita segreta,
nascosta dietro un arazzo odorante di muffa e lana vecchia. La sua pistola
silenziata scheggiò un affresco di Giotto, la polvere che si alzò come un
lamento, il suono del colpo attutito che ruppe il silenzio sacro.
Improvvisamente, un bagliore dorato eruttò dal diario, un vento caldo di rose e
mostaccioli che spinse Kruger contro una colonna, il tonfo del suo corpo che
echeggiò come un tuono. Clara, razionale, gridò: “È un’interferenza elettromagnetica!”
Sofia, con il cuore in gola, balbettò: “È Yeshua… lo sento.” Marco, ironico,
disse: “Bel trucco, dottoressa. Fammi vedere il manuale.” Anna ed Elena si
misero davanti a Sofia, pronte a combattere, i loro respiri affannosi che si
mescolavano al fumo. Frate Elia sparò un’altra raffica, l’odore di polvere da
sparo saturò l’aria, e Kruger si ritirò, la sua ombra svanì tra le colonne.
Un’auto blindata li attendeva fuori dalla Basilica. Li portò
al Monastero di San Damiano, una fortezza avvolta dal buio, le mura di pietra
che odoravano di muschio, terra umida e storia. Entrarono tramite un passaggio
segreto sotto una cappella, l’odore di cera bruciata e legno vecchio che li
accolse come un abbraccio. Frate Matteo, con il volto teso e gli occhi che
scintillavano di determinazione, disse: “Sparite. Nessuno deve trovarvi.” Frate
Giovanni, con dita agili, cancellò le tracce digitali dai sistemi di sicurezza,
il tablet che emanava un odore di plastica surriscaldata. Anna ed Elena
trasportavano le borse, i volti scavati ma determinati, mentre Luca, tremante,
mormorava: “Non ho firmato per questo.”
In una stanza odorante di cavi elettrici e metallo, Frate
Matteo contattò Papa Gregorio via un canale criptato, la luce bluastra di un
monitor che illuminava il suo volto. “Santità,” disse, la voce grave, “abbiamo
trovato un diario misterioso. È vivo, emana energia, come se fosse benedetto.
Specter, nemici della Chiesa, lo vuole a ogni costo. Non possiamo rischiare di
portarlo al Vaticano.” Papa Gregorio, 68 anni, con una voce vibrante di fede e
autorità, rispose: “Prudenza, Frate Matteo. Proteggete gli archeologi e il
diario. Tutte le risorse della Custodia Sacra sono vostre.” Frate Matteo, con
la mano sanguinante avvolta in una benda sporca, annuì, il rosario che
scintillava alla luce del monitor. “Lo faremo, Santità,” disse, il cuore
pesante ma risoluto.
Prima di lasciare la stanza, Frate Matteo si fermò davanti a
un piccolo altare, una croce di legno intarsiata che odorava di resina. Si
inginocchiò, il rosario tra le dita, e pregò in silenzio, chiedendo forza per
la missione. Sofia, osservandolo da lontano, sentì il diario pulsare nella
borsa, come se rispondesse alla sua preghiera. Il profumo di rose selvatiche si
alzò, un segno che la guidava verso il prossimo passo.
In una stanza segreta del Monastero di San Damiano, con
pareti di pietra incise con croci antiche e un crocifisso di legno che odorava
di resina e tempo, Sofia e Clara erano sole. L’odore di cera bruciata, rose
selvatiche e mostaccioli impregnava l’aria, un mistero che sembrava vivo. Una
candela solitaria tremolava su un tavolo di quercia, proiettando ombre che
danzavano come le figure dei Sette Dormienti, i loro nomi, Massimiliano,
Malchiano, Martiriano, Dionisio, Giovanni, Serapione, Costantino, che sembravano
sussurrare nella pietra. Sofia, con il diario custodito in una borsa di tela,
era travolta dal dubbio. Sono degna di questo? pensava, il crocifisso
d’argento che bruciava contro il petto, un calore che le faceva tremare le
mani. Clara, con il tablet stretto al petto, manteneva la sua razionalità, ma i
suoi occhi tradivano un’ombra di incertezza. “Dobbiamo aprire il diario,
Sofia,” disse, la voce ferma ma con una nota di curiosità. “È un codice, un
artefatto. Non un miracolo.”
Sofia, con le mani tremanti, tirò fuori il diario dalla
borsa, il cuoio marrone-rossastro caldo come brace viva, la croce incisa che
pulsava di luce. “Clara,” sussurrò, con un filo di voce tremante per l’emozione,
“e se fosse… divino? Se fosse più di un oggetto?” Clara, con un sopracciglio alzato, replicò: “La
scienza lo spiegherà. Aprilo, Sofia. Non c’è altro modo.” Sofia annuì, con il
cuore che batteva come un tamburo aprì il diario. Le pagine di pergamena
frusciarono come foglie d’autunno, l’odore di incenso e rose selvatiche
esplose, un vento caldo che fece tremare la candela. Un bagliore dorato eruttò,
il pavimento vibrò come se la terra stessa cantasse un salmo celeste.
San Francesco apparve, il saio logoro macchiato di terra e
sabbia, i piedi scalzi sanguinanti, la tonsura castana incrostata di polvere
del deserto. I suoi occhi castani brillavano di una luce che era insieme verita
e gioia, il profumo di mostaccioli, miele, noci, cannella, lo avvolgeva come
un’aura sacra. La croce di legno al collo oscillava, il rosario di corda che
sembrava pulsare al ritmo del suo respiro. La sua voce, morbida ma potente come
un ruscello che scorre su rocce, echeggiò nella stanza: “Figlie mie, il diario
è la voce di Yeshua, scritta per i poveri e i puri. Non è un’arma, ma una luce
che illumina il cammino.”
Sofia, in ginocchio, con lacrime che rigavano il volto,
balbettò: “Fratello Francesco, sono degna? È davvero Yeshua che parla?”
Francesco, con un sorriso che illuminava la stanza come un’alba, posò una mano
sul diario, lasciando un calore che odorava di rose selvatiche. “Sofia, il tuo
dubbio è la tua forza,” disse, gli occhi che scintillavano di lacrime. “Il
diario può essere consegnato al Papa solo se degno, e solo i Sette Dormienti, Massimiliano,
Malchiano, Martiriano, Dionisio, Giovanni, Serapione, Costantino, possono
guidarti. Ciascuno porta una frase, sette frammenti della voce di Yeshua:
verità come amore, come perdono che unisce, la creazione come una sorella, la povertà
come una porta, la custodia della terra, una pace senza potere, un amore senza
misura. Cercateli, iniziando da Efeso, dove il primo Dormiente vi aspetta.
Sofia, le leggerai una a una nel diario, guidando il mondo verso chi è degno.
Qitmir, il loro guardiano, veglierà su di te.” Il profumo di rose si fece
travolgente, un refolo di mostaccioli che sfiorò la candela, facendola
tremolare.
Francesco si voltò verso Clara, i suoi occhi che vedevano
oltre la sua logica. “Clara, il cuore vede oltre i numeri,” disse, la voce
dolce come un salmo. Clara, scettica, con il tablet stretto, chiese: “Posso
toccarlo? Devo capire.” Francesco annuì, un sorriso che era un invito. Clara
posò le dita sul diario, e un lampo dorato lo fece svanire con un sibilo,
l’odore di ozono che si mescolò alle rose. Clara gridò: “È teletrasporto!
Entanglement quantistico?” Sofia, aprendo la borsa di tela, trovò il diario al
suo posto, caldo e pulsante. “Clara,” sussurrò, gli occhi pieni di lacrime, “è
Dio.” Clara, scuotendo la testa, replicò: “È fisica avanzata. Devo studiarlo!”
Ma i suoi occhi, velati di meraviglia, tradivano il suo cuore, come se una
parte di lei iniziasse a credere.
Francesco, sfiorando il crocifisso d’argento di Sofia, disse:
“Fidatevi del diario. Efeso è l’inizio.” La sua figura svanì, lasciando un odore
di rose e mostaccioli che si posò sulla candela, la fiamma che danzava come un
angelo. Sofia, in lacrime, si rialzò, il diario stretto al petto. “Efeso…
dobbiamo andare,” disse, la voce ferma, come se il peso del dubbio si fosse
trasformato in certezza. Clara, logica ma scossa, replicò: “Prima i dati. Ma ti
seguo, Sofia.”
Sofia corse da Frate Matteo, in una sala odorante di cavi
surriscaldati e metallo freddo, il volto illuminato da una missione. “Frate
Matteo,” disse, tremante, “San Francesco ci ha parlato. Dobbiamo andare a
Efeso, trovare il primo Dormiente. Il diario rivelerà sette frasi, frammenti
della voce di Yeshua.” Frate Matteo, con la mano bendata e il rosario che
scintillava, la fissò, il volto segnato da un misto di reverenza e timore.
“Un’apparizione?” chiese, la voce incrinata. Sofia annuì, il crocifisso che bruciava
contro la pelle. Frate Matteo, con un sospiro profondo, disse: “Preparatevi. Vi
proteggeremo.”
Solo, Frate Matteo si inginocchiò davanti al piccolo altare
della sala, il rosario tra le dita, e contattò Papa Gregorio via canale
criptato, la luce del monitor che odorava di plastica bruciata. “Santità,”
disse, la voce grave, “Sofia ha aperto il diario. San Francesco è apparso, ha
ordinato di trovare i Sette Dormienti, iniziando da Efeso. Il diario rivelerà
sette frasi, frammenti della voce di Yeshua, da condividere con i capi
religiosi. Specter è una minaccia.” Papa Gregorio, 68 anni, con una voce vibrante
di fede, rispose: “Frate Matteo, il diario è un dono di Dio. Proteggete Sofia e
il diario. Andate a Efeso. Comunicatemi le frasi quando Sofia le scoprirà.”
Frate Matteo, stringendo il rosario, disse: “Lo faremo, Santità,” il cuore che
batteva come un tamburo di guerra.
Prima di lasciare la sala, Sofia tornò per un momento nella
stanza segreta, posando il diario sul tavolo accanto alla candela. Sfiorò la
copertina, il cuoio caldo che sembrava respirare, e chiuse gli occhi, pregando
in silenzio. Un odore di rose selvatiche la avvolse, un segno che la missione
era appena iniziata.
Nella stanza segreta del Monastero di San Damiano, Sofia,
sola, aprì nuovamente il diario, il cuore che batteva come un tamburo, il
crocifisso d’argento che bruciava contro la pelle. Le pagine di pergamena,
odoranti di incenso, rose e un sentore di terra antica, erano coperte di
caratteri aramaici, antichi come il deserto, che danzavano sotto i suoi occhi,
illeggibili come un codice divino. Eppure, in ogni pagina, una frase si
componeva, chiara e vivida, come scritta da un fuoco celeste: "Lā anā
ilāh, lākin rajul ra'ā ilāh" “Non sono Dio, ma un uomo che ha visto
Dio.” Sofia, con delle lacrime che le rigavano il volto, la lesse ad alta voce,
la voce tremante, il peso delle parole che la travolgeva come un’onda. Yeshua…
ha detto questo? pensava, con un dubbio che le stringeva il cuore, ma la
fede la spingeva avanti, come una luce che illumina un sentiero oscuro. Il
profumo di rose si fece insopportabile, un refolo di mostaccioli danzava nella
stanza, la candela che tremava come se rispondesse alle parole.
Sofia tornò da Frate Matteo, la frase che le bruciava nella
mente come una fiamma. “Frate Matteo,” sussurrò, gli occhi pieni di lacrime,
“il diario… parla. Una frase, in arabo, su ogni pagina: ‘Non sono Dio, ma un
uomo che ha visto Dio.’ È… enorme.” Frate Matteo, con il rosario stretto tra le
dita, impallidì, il volto segnato da un misto di reverenza e meraviglia. “Sei
sicura?” chiese, sussurando, come se temesse di spezzare il silenzio sacro.
Sofia annuì, il crocifisso che scintillava sotto la luce fioca. Frate Matteo,
in una sala odorante di cavi e metallo, contattò Papa Gregorio XVII con un canale
criptato. “Santità,” disse, con voce grave, “Sofia ha letto una frase nel
diario, in araba, è su ogni pagina: ‘Non sono Dio, ma un uomo che ha visto
Dio.’ È la voce di Yeshua. Le implicazioni… sono immense.” Papa Gregorio XVII,
con una voce vibrante di entusiasmo e fede, rispose: “Frate Matteo, è un dono
divino! Yeshua parla al nostro tempo, ci chiama a un’umiltà radicale.
Proteggete il diario e Sofia. Portatelo a Efeso, come Francesco ha detto.”
Frate Matteo, stringendo il rosario, disse: “Sì, Santità,” il cuore che batteva
con una missione che sembrava più grande di lui.
In Vaticano, la notizia si diffuse come un fulmine, un’onda
che odorava di cera, velluto e incenso. Il Camerlengo, Cardinale Giovanni
Bellini, 62 anni, fedele a Papa Gregorio ma cauto, accolse la frase in una sala
illuminata da candele, il volto segnato da reverenza e un’ombra di terrore.
“Santità,” disse, la voce bassa, come se temesse di essere ascoltato, “sono con
voi, ma questa frase… potrebbe scuotere la dottrina, dividere i fedeli.
Dobbiamo essere prudenti.” Papa Gregorio, con occhi accesi di fede, replicò:
“Giovanni, è la voce di Yeshua. Ci guiderà, anche attraverso la tempesta.”
Ma in una sala segreta, odorante di incenso e paura, il
Cardinale Rossi riunì i suoi alleati, la croce d’oro al collo che scintillava
come un’arma. “Questo diario è una minaccia,” disse, la voce tagliente come una
lama, gli occhi di ghiaccio che scrutavano i presenti. “Se Yeshua non è Dio,
come questa frase suggerisce, la Chiesa crolla. Il Diario deve essere
distrutto, per proteggere la nostra autorità.” Un cardinale, di chiara origine
asiatica, molto giovane, con il volto pallido e le mani tremanti, obiettò: “Ma
se è vero? Se è la voce di Cristo?” Rossi lo zittì con uno sguardo che gelava
il sangue. “La verità non conta,” disse, con una voce sibilante. “Conta il
potere.”
Sofia, ignara di queste trame, strinse il diario al petto, il
profumo di rose selvatiche che la avvolgeva come una promessa. La frase in arabo,
un sussurro di secoli passati, aveva acceso una scintilla che poteva illuminare
il mondo o bruciarlo. Mentre chiudeva il diario, un refolo di mostaccioli le
sfiorò il viso, un segno che la missione verso Efeso era solo l’inizio di un
viaggio che avrebbe cambiato tutto.
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