Premessa
Nell’anno 410 a.C., la Sicilia sud-occidentale si scaldava sotto un sole mediterraneo che accendeva i campi di grano di riflessi dorati e faceva scintillare le acque del fiume Mazaro come specchi di Poseidone. Segesta, Selinunte e Mazara erano gioielli incastonati in un mosaico di ulivi contorti, templi candidi e mercati brulicanti, legati da strade polverose che portavano il profumo di olive schiacciate e il suono di carri che scricchiolavano sotto il peso delle merci. Ma nell’aria, tra il canto delle cicale e il fruscio delle onde, si insinuava un’ombra, un sussurro di inquietudine che sembrava provenire dagli dèi stessi, come se il destino stesse già intrecciando i fili di un futuro cupo.
Segesta, la città elima si ergeva fiera su colline verdeggianti, i suoi templi dorici che svettavano come offerte al cielo, le colonne lisce che catturavano la luce dell’alba. Le strade acciottolate risuonavano dei passi di mercanti e sacerdotesse, le loro tuniche bianche che ondeggiavano mentre portavano incenso agli altari di Demetra. I cittadini, con la pelle bruciata dal sole e gli occhi pieni di cautela, vivevano tra il profumo di pane appena sfornato e il clangore delle forge. Ma il loro cuore batteva con un ritmo ansioso: Selinunte, la potente vicina, gettava un’ombra lunga. Le voci nei mercati parlavano di ambasciatori inviati a Cartagine, di alleanze fragili come vasi di ceramica, di un desiderio di pace che sembrava scivolare via come sabbia tra le dita. «Non possiamo fidarci di loro,» sussurrava una vecchia tessitrice, le mani nodose che lavoravano la lana sotto un portico. «Selinunte vuole tutto, anche le nostre anime.»
Selinunte, la regina del mare, pulsava di ambizione. Le sue mura di pietra calcarea riflettevano il sole come scudi lucenti, e il porto brulicava di navi che scaricavano anfore di vino e caricavano grano per i mercati d’oltremare. I selinuntini camminavano con il passo fiero di chi si sente benedetto da Zeus, le tuniche ornate di bordi rossi che sventolavano al vento salmastro. Ma la loro grandezza aveva un prezzo. Mazara, la sentinella costiera, era sotto il loro controllo, un porto vitale che garantiva ricchezze ma alimentava rancori. Nei vicoli di Selinunte, i mercanti brindavano al dominio sul mare, mentre i pescatori, con le reti sulle spalle, mormoravano di tasse troppo pesanti e di una libertà soffocata. Una giovane madre, cullando il figlio vicino al tempio di Hera, guardava il mare e sospirava: «Questa gloria ci costerà cara. Gli dèi non amano chi prende troppo.»
Mazara, accarezzata dal suo fiume e dal mare, era un canto di vita. Il Mazaro scorreva lento, le sue acque che riflettevano il bagliore del sole lontano, portando barche cariche di grano, olio e ceramiche dipinte verso il porto affollato. Le strade di terra battuta, bordate da case di pietra imbiancate, odoravano di pesce essiccato e origano, mentre il mercato ronzava di voci: venditori che gridavano il prezzo delle olive, donne che contrattavano con risate, bambini che correvano tra ceste di fichi. I pescatori, con le mani callose e gli occhi strizzati dal sole, tiravano reti scintillanti di sardine, raccontando storie di tempeste e dèi marini. Ma anche qui, sotto i sorrisi, si avvertiva una tensione. I mazaresi vivevano all’ombra di Selinunte, le loro navi costrette a pagare dazi, i loro giovani spesso reclutati per le milizie della città dominante. Un anziano vasaio, modellando un’anfora sotto una tettoia, scuoteva la testa: «Questo fiume porta ricchezza, ma anche catene. Selinunte ci stringe troppo forte.»
Le strade che collegavano Mazara, Selinunte e Segesta erano arterie vive, percorse da carri che scricchiolavano sotto il peso di anfore, da viandanti con mantelli polverosi, da messaggeri a cavallo che portavano notizie di alleanze e tradimenti. Lungo questi sentieri, sotto ulivi che stormivano al vento, si scambiavano non solo merci, ma anche storie: di templi costruiti per placare gli dèi, di eroi che sfidavano il destino, di un’ombra che cresceva oltre il mare, dove Cartagine osservava con occhi di falco. Le taverne di Mazara, illuminate da lampade a olio, si riempivano di voci concitate la sera, con marinai che parlavano di flotte cartaginesi e contadini che temevano per i loro campi. Una ragazza, servendo vino in una coppa di terracotta, ascoltava e sussurrava al fratello: «Dicono che la guerra verrà, come un fulmine. E noi saremo qui, tra il fiume e il mare, a pagarne il prezzo.»
Sotto questa superficie di prosperità, le crepe si allargavano. Nei templi, dove il fumo dell’incenso saliva verso il cielo, i sacerdoti leggevano presagi nelle viscere degli animali: nubi che si addensavano, voli di gabbiani che tagliavano l’orizzonte, il cielo che brontolava come un dio irrequieto. A Segesta, una madre stringeva il figlio, temendo per il suo futuro. A Selinunte, un oplita lucidava la sua lancia, il cuore pesante di presentimenti. A Mazara, un pescatore guardava il Mazaro, le sue acque che sembravano portare messaggi di tempesta. Gli dèi, silenziosi nelle loro statue di marmo, osservavano, mentre le rivalità tra le città si intrecciavano con le ambizioni di potenze lontane.
Quando l’alba del 409 a.C. avrebbe portato la distruzione di Selinunte, con le fiamme di Annibale Magone che divoravano i suoi templi, non sarebbe stato uno shock per chi conosceva il cuore della Sicilia. Era scritto nei venti che accarezzavano il Mazaro, nei sussurri delle sacerdotesse, nelle pietre calde dei templi. Mazara, con il suo fiume che scorreva imperturbabile, avrebbe visto il fumo salire da Selinunte, e i suoi abitanti, con il fiato sospeso, avrebbero capito che il mondo che conoscevano stava cambiando. Le loro storie, i loro amori, le loro paure, intessute nella trama di quella terra, avrebbero portato il peso di un destino che il cuore della Sicilia non avrebbe mai dimenticato.
Capitolo Primo
La Strada sotto la Luna
Mancava un anno alla caduta di Selinunte, e quella notte d’inverno la Sicilia occidentale sembrava trattenere il fiato sotto una luna piena, splendente come lo scudo di Atena. Il suo bagliore argentato accendeva le colline, guidando un gruppo di commercianti in partenza da Segesta. I loro carri, carichi di merci, erano pronti a solcare la strada verso il porto di Mazara, quasi sotto la benedizione silenziosa degli dèi.
Tra loro c’era Pandaro, un uomo sulla quarantina, robusto, con una tunica di lana grezza color ocra che gli cadeva pesante sulle spalle. Una cintura di cuoio consunto gli stringeva la vita, e un mantello marrone scuro lo proteggeva dal freddo pungente della sera. Accanto a lui, sua figlia Leda, diciassette anni e una bellezza che sembrava rubata alle ninfe. I suoi lunghi capelli castani, raccolti in una treccia ordinata, danzavano al vento, e i suoi occhi verdi brillavano di curiosità, come se il mondo intero fosse un segreto da scoprire. Indossava una tunica di lino chiaro, orlata di ricami delicati, e un mantello azzurro, un dono della madre per il suo primo viaggio, che le scivolava morbido sulle spalle come un abbraccio di Afrodite Urania.
I carri, solidi e imponenti, erano fatti di quercia stagionata, alti quasi quanto un uomo e carichi di tronchi destinati alle navi di Mazara. Ogni carro era trainato da due buoi, bestie dal manto bruno e dalle corna larghe, che sbuffavano nuvole di vapore nell’aria gelida, quasi offrendo il loro fiato a Poseidone. Le ruote, rinforzate con cerchi di ferro, scricchiolavano sotto il peso, mentre gli altri commercianti – cinque in tutto – controllavano i loro carichi: pelli conciate, ceramiche dipinte, sacchi di grano, botti di vino e anfore d’olio. Ognuno aveva il suo carro, i suoi buoi e i suoi sogni per il mercato di Mazara.
«Padre, Mazara sarà un sogno!» esclamò Leda, sistemandosi sul carro accanto a Pandaro. La sua voce era un misto di entusiasmo e impazienza, come se il viaggio fosse già un’avventura. «Voglio vedere i Cartaginesi, con quei mantelli purpurei che sembrano usciti da un racconto! Comprerò un abito nuovo, magari con bordi dorati, e assaggerò quel pesce speziato di cui tutti parlano!» Pandaro le lanciò un’occhiata, un sorriso che gli increspava le labbra. «Calma, Leda. Prima il lavoro, poi i tuoi sogni.» Ma nei suoi occhi brillava una luce calda, l’affetto per quella figlia così piena di vita, quasi toccata dalla grazia di Afrodite.
La carovana si mise in marcia al calare della notte, i carri allineati lungo il sentiero che scendeva da Segesta. La luna piena trasformava il paesaggio in un mare d’argento, illuminando colline e boschi di querce come un dono di Selene. Dopo un’ora di viaggio, vicino a Halicyae, passarono accanto a un piccolo santuario scavato nella roccia, dedicato a Tanit, la dea punica della fertilità. Una statuetta di pietra, con un disco solare sopra la testa, vegliava su un altare cosparso di fiori secchi e ciotole di latte rappreso. Uno dei commercianti, un uomo con una tunica grigia, si fermò un momento, chinando il capo per mormorare una preghiera, chiedendo protezione per il viaggio. Poco dopo, un’altra carovana si unì a loro: tre carri guidati da uomini silenziosi, avvolti in tuniche grigie e cappucci di lana, che trasportavano otri di vino e ceste di olive. Un rapido cenno di saluto, e il gruppo proseguì unito, seguendo la riva destra del fiume Mazaro. Le sue acque, sacre a Poseidone e a Baal Hammon, riflettevano la luna come uno specchio incrinato, un confine naturale tra le terre di Segesta e quelle di Selinunte.
Il terreno cambiò dopo Halicyae, diventando morbido e fangoso. Le ruote affondavano nella terra umida, e i buoi avanzavano lenti, i muscoli tesi sotto il giogo. Pandaro incitava le sue bestie con voce calma ma ferma, mentre Leda, avvolta nel mantello, si guardava intorno con occhi spalancati, come se ogni albero e ogni ombra raccontassero una storia. Lungo il fiume, un altro santuario si ergeva sulla riva: un altare di pietra dedicato a Demetra, con un fascio di spighe scolpite e semi sparsi al vento come offerte. Leda lo indicò, un sorriso che le illuminava il viso. «Guarda, padre! È Demetra che ci protegge, vero?» Pandaro annuì, ma il suo sguardo si perse sul Mazaro, quel confine che separava due mondi pronti a scontrarsi. Un’ombra gli attraversò il volto, come se sentisse il peso di un destino lontano.
«Dici che i Cartaginesi sono davvero alti come raccontano?» chiese Leda, rompendo il silenzio con la sua voce sognante. «E il loro cibo… sarà vero che usano spezie che fanno pizzicare la lingua?» Pandaro rise piano, scuotendo la testa. «Lo scoprirai presto, ma non lasciarti incantare da qualche mercante con troppe storie da vendere.»
Il viaggio proseguì senza intoppi, con la luna alta a vegliare su di loro. L’aria si fece salmastra man mano che si avvicinavano alla costa, e all’alba, quando un bagliore rosato accese l’orizzonte, Mazara si rivelò davanti a loro: un mosaico di case bianche, moli brulicanti di vita e navi che dondolavano sulle onde, quasi sotto lo sguardo di Poseidone. Le porte della città si aprirono con un gemito, e la carovana si fermò davanti alle guardie. Pandaro mostrò i permessi – tavolette di legno incise con sigilli – e il gruppo fu accolto all’interno.
Si diressero verso un grande emporio vicino al porto, un edificio di pietra e legno con un cortile pieno di merci: anfore impilate, rotoli di tessuto, ceste di pesce secco. Pandaro fermò il carro, e un uomo sulla cinquantina, robusto e con un sorriso aperto, uscì ad accoglierlo. Era Nestore, con una tunica verde scuro bordata di rosso e un mantello di lana nera che gli dava un’aria autorevole. I suoi capelli grigi erano legati in una coda ordinata. «Pandaro, vecchio amico!» esclamò, stringendogli le braccia con calore. «Ce l’hai fatta!» Pandaro scese dal carro e gli presentò Leda, che fece un piccolo inchino, il viso illuminato da un sorriso timido ma radioso. «Mia figlia, Leda. È la sua prima volta a Mazara.» Nestore annuì, squadrandola con un’occhiata gentile, poi fece un cenno a un giovane soldato di guardia all’ingresso. «Vieni, Aiace.»
Aiace si avvicinò: alto, con spalle larghe e una tunica corta di lino grigio sotto un pettorale di cuoio. Portava un elmo semplice appoggiato sul fianco, e i suoi capelli neri incorniciavano occhi scuri che si posarono su Leda per un istante, prima di distoglierli con un pizzico di imbarazzo. Leda arrossì, abbassando lo sguardo, le guance accese come petali di rosa. «Mio figlio, Aiace,» disse Nestore con un tono orgoglioso, notando il silenzio tra i due ma scegliendo di ignorarlo con un sorrisetto.
«Aiace, porta Leda nella zona dei tessuti,» ordinò Nestore. «Ci sono quelli appena arrivati da Cartagine. Lasciale scegliere qualcosa di bello.» Leda batté le mani, gli occhi che brillavano. «Davvero? Oh, grazie! Voglio vedere tutto!» Aiace annuì, un sorriso timido che gli increspava le labbra, e la guidò verso l’interno dell’emporio. Pandaro e Nestore, nel frattempo lasciarono che gli schiavi della carovana – uomini con tuniche logore e sandali consumati – scaricassero i tronchi e caricassero le merci ordinate: sacchi di sale, spezie, un’anfora di vino punico e due pesanti talenti di rame e stagno, destinati a forgiare armi. Pandaro accettò quell’ordine con un nodo allo stomaco, come se stesse stringendo un patto con Ares.
Nestore condusse Pandaro a un tavolo di legno nel cortile, porgendogli una coppa di vino rosso e un piatto di pesce affumicato, profumato di erbe. «Notizie dal porto,» disse, abbassando la voce. «Le navi cartaginesi arrivano sempre più spesso, e non solo per commerciare. Corre voce che a Cartagine il senato stia pensando a una spedizione contro Selinunte. Segesta l’ha chiesta, e Annibale Magone potrebbe guidarla.» Pandaro si irrigidì, la coppa sospesa a mezz’aria. «Guerra?» chiese, la voce pesante. Nestore annuì, serio. «Così dicono. Se è vero, nulla sarà più come prima. Il commercio, le città… noi.»
Dentro l’emporio, Leda sfiorava i tessuti cartaginesi con dita leggere: sete purpuree che sembravano catturare la luce, lini ricamati con fili d’oro, mantelli dai colori così vivi da togliere il fiato. «Guarda, Aiace!» esclamò, sollevando una stoffa azzurra che scintillava come il mare. «Non è stupenda? Potrei farmi un abito per le feste!» Aiace, accanto a lei, annuì, le mani dietro la schiena, cercando di nascondere il rossore che gli scaldava il viso. «Ti starebbe… bene,» mormorò, e Leda rise, un suono cristallino che riempì l’aria. Poi, con un lampo di entusiasmo, gli afferrò la mano. «Andiamo al porto! Voglio vedere le navi e provare quel cibo di cui tutti parlano!» Aiace esitò, ma il suo sorriso lo tradì, e cedette, lasciandosi trascinare da lei.
Le strade di Mazara erano un vortice di vita: pescatori che gridavano offerte, mercanti punici con mantelli rossi e anelli d’oro che scintillavano al sole. Il porto era un’esplosione di colori e rumori: navi con vele bianche dondolavano sulle onde, marinai scaricavano casse di spezie e tessuti, e l’odore di sale e pesce si mescolava al profumo del mare. Un piccolo santuario ligneo dedicato a Melqart, il dio punico del commercio, vegliava sul molo, con una statua barbuta che stringeva un tridente. Leda si fermò davanti a una bancarella, attirata da una ciotola di pesce grigliato. «Cos’è?» chiese, curiosa, indicando il piatto. «Sardine con harissa,» rispose il venditore, porgendole un pezzo su una foglia di fico. Leda lo assaggiò, gli occhi che si spalancavano. «È piccante! Ma… sa di mare e fuoco, è incredibile!» Aiace rise, prendendone un pezzo per sé, e per un momento i loro sguardi si incrociarono, timidi ma complici.
Poco dopo, si fermarono accanto a un altare di pietra dedicato a Poseidone, con un tridente inciso e conchiglie sparse come offerte. Una donna con un velo color zafferano vendeva focacce di ceci fritte, dorate e invitanti. Leda ne morse una, il viso che si illuminava. «È croccante fuori e morbida dentro! A Segesta non abbiamo niente del genere!» Aiace la osservava, un sorriso che gli ammorbidiva i lineamenti, mentre lei lo trascinava da una bancarella all’altra: un sorso di vino dolce punico, un dattero ripieno di mandorle che le lasciò le dita appiccicose di miele. Tra risate e assaggi, i loro sguardi si cercavano sempre più spesso, come se il porto, con il suo caos benedetto dagli dèi, fosse il loro mondo.
Ma al tavolo dell’emporio, l’atmosfera era diversa. Pandaro fissava il vino nella coppa, il riflesso della luce che tremava come un presagio. La guerra si avvicinava, un’ombra silenziosa come la marea, sotto lo sguardo freddo di Ares e Baal Hammon. Il Mazaro, quel confine che avevano costeggiato, non avrebbe fermato le ambizioni di Cartagine né le richieste di Segesta. E mentre il sole saliva su Mazara, portando con sé il rumore del porto e il profumo del mare, un senso di cambiamento inevitabile si posava su di loro, pesante come il filo del destino tessuto dalle Moire.
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